Scelte rapide:

Newsletter ABC

cancella l'iscrizione


In collaborazione con Fondazione Banco di Sardegna
 

Sei in: home page › notizie › iniziative ed eventi › testamento biologico: serrenti 6 luglio 2012, l'intervento di ada anchisi (direttivo abc sardegna)


Testamento Biologico: Serrenti 6 luglio 2012, l'intervento di Ada Anchisi (direttivo ABC Sardegna)

Convegno con Gianluigi Gessa, Ada Anchisi e Gianmario Demuro

Sono la mamma di Chiara, una ragazza che ha 25 anni, in situazione di gravissima disabilità fin dalla nascita.
Nel 1987ci siamo sentiti cadere il mondo addosso. Eravamo molto giovani, io 24 anni, mio marito 26. Non avevamo la più pallida idea di quale sarebbe stato il nostro futuro. Non sapevamo proprio come affrontare una situazione così traumatica che riguardava i gravi problemi al sistema nervoso centrale di nostra figlia.
E’ cominciata la difficile ricerca delle cure, poi l’incontro con molti professionisti validi e di supporto, ma anche non; e ancora, l’incontro fruttuoso con altre famiglie che condividevano la nostra stessa esperienza; cominciavamo così a capire quale strada intraprendere nella nostra vita.

Immagine rappresentativa per: Testamento Biologico: Serrenti 6 luglio 2012, l'intervento di Ada Anchisi (direttivo ABC Sardegna)

Convegno con Gianluigi Gessa, Ada Anchisi e Gianmario Demuro

Abbiamo deciso come Associazione Bambini Cerebrolesi di portare qui a Serrenti un’esperienza: la nostra posizione sul testamento biologico che più volte abbiamo esposto, con articoli e documenti proposti al legislatore nazionale tramite la commissione parlamentare competente e che trovate nel nostro sito www.abcsardegna.org, ma qui abbiamo pensato di proporre la nostra storia, che spero possa essere un contributo al dibattito che è suscitato da questo tema. Vi prego quindi di avere un po’ di pazienza. Ringrazio il sindaco cosi come saluto con tanta simpatia e stima sia il Prof. Demuro che il professor Gessa.
Sono la mamma di Chiara, una ragazza che ha 25 anni, in situazione di gravissima disabilità fin dalla nascita.
Nel 1987ci siamo sentiti cadere il mondo addosso. Eravamo molto giovani, io 24 anni, mio marito 26. Non avevamo la più pallida idea di quale sarebbe stato il nostro futuro. Non sapevamo proprio come affrontare una situazione così traumatica che riguardava i gravi problemi al sistema nervoso centrale di nostra figlia.
E’ cominciata la difficile ricerca delle cure, poi l’incontro con molti professionisti validi e di supporto, ma anche non; e ancora, l’incontro fruttuoso con altre famiglie che condividevano la nostra stessa esperienza; cominciavamo così a capire quale strada intraprendere nella nostra vita.
Un episodio fondamentale per noi è stato quando un bravissimo medico che seguiva Chiara, per il nostro bene ci ha suggerito di affidarla ad un istituto: per la poca vita che le sarebbe rimasta - così diceva - avrebbe ricevuto cure adeguate e la nostra famiglia avrebbe potuto vivere una vita cosiddetta normale.
Fu proprio lì che abbiamo capito che non volevamo una vita standard, non sarebbe stata Chiara a doversi adeguare alle nostre esigenze, ma piuttosto noi alle sue. Sarebbe stata lei, nella sua situazione così estrema, a educarci.
Certo i suoi bisogni erano e sono tutt’ora tantissimi, ha bisogno di assistenza 24 ore su 24, ha il sondino nasogastrico per l’alimentazione, macchina respiratoria non invasiva che usa per più di 20 ore al giorno; le sono indispensabili, per le abbondanti secrezioni, frequenti broncoaspirazioni; il monitoraggio continuo con lo strumento del saturimetro
Abbiamo dovuto capire, sapere, approfondire tutto ciò che la riguarda, le sue potenzialità e funzioni e diventare esperti genitori protagonisti, non deleganti verso professionisti e esperti ma con loro creare indispensabili e preziose alleanze, attivare collaborazioni.
Intorno a Chiara hanno sempre ruotato figure professionali; tutti rigorosamente a domicilio ed in stretto contatto oltre che con noi, con l’allora pediatra o con l’attuale medico di base. Siamo arrivati perfino a chiamare il veterinario con l’ecografo ed il radiografo portatile per cavalli………..Eh si, purtroppo non è facile trovare di queste attrezzature portatili disponibili per gli umani …….tutto questo si è reso possibile anche perché i professionisti hanno accettato il ruolo attivo di noi genitori,e hanno collaborato e coprogettato con noi i servizi adeguati per nostra figlia e noi genitori riconosciamo, dunque in un virtuoso processo di reciprocità, l’insostituibile loro ruolo.
Ben presto Chiara, col suo non poter parlare, non potersi muovere, il suo apparente non poter far nulla, è diventata il centro dinamico attorno al quale sono nati e sviluppati competenze e scambi di relazioni, fino a promuovere l’associazionismo familiare, studi e ricerche, promozione di leggi, in ambito regionale e nazionale. Un esempio solo: un modello di servizi personalizzati per le persone con disabilità grave, nato nel 2000 da quest’esperienza, è oggi diventato in Sardegna una realtà per più di 30.000 persone con disabilità ed è un modello per le altre regioni italiane ed anche all’estero.
Siamo diventati, insieme alle altre famiglie e associazioni, protagonisti attivi di un’azione sociale, di promozione dell’attuazione di diritti umani, di una una presa in carico (da parte dei servizi e delle istituzioni) che riguarda i diritti, i diritti umani di tutti a partire dalla persone in situazione più estrema che supera il modello pietistico e assistenzialistico della segregazione sociale, per cui è nostra esperienza che, migliorando la qualità di vita dei cosiddetti più deboli, si produce il miglioramento della società per tutti.
Tre anni fa quando la situazione del quadro respiratorio di mia figlia ha avuto un repentino peggioramento, abbiamo dovuto ricorrere al reparto di rianimazione e abbiamo cominciato un percorso di assistenza e di presa in carico nella rete dei servizi di cure integrate di “area critica” che prevede il diretto rapporto e continuità fra territorio e ospedale.
Ecco l’importanza della multidisciplinarietà ; si collabora e si lavora insieme.
Ci siamo chiesti insieme a tanti familiari che vivevano esperienze con figli con disabilità grave, che non possono rappresentarsi da soli:cosa vogliamo per i nostri figli? libertà di morire o sostegni per vivere? Pur non avendo la presunzione di fornire alcuna risposta esaustiva e esauriente alle difficili e delicate questioni umane relative a questo tema, noi pensiamo che la voglia di vivere e la qualità di vita sia determinata dalle relazioni umane e dai sostegni che si ricevono. Chi vive la disabilità, avverte con maggiore intensità la mancanza o la presenza di questi rapporti e sostegni.
Se pensiamo con una metafora che l’handicap, la disabilità, sia pesante come una tonnellata, è ovvio che qualsiasi persona, qualsiasi famiglia lasciata da sola ne risulterà schiacciata: se invece impariamo a dividerci il peso, se c’è una comunità pronta a condividerlo, questo verrà ad essere diminuito per i protagonisti e sarà molto più facile da portare. L’handicap non è un problema irrisolvibile, anzi: ognuno può ridurlo partecipando.
Per questo mi chiedo: siamo sicuri che chi ha desiderato morire era circondato da una rete di solidarietà di sostegno adeguata da parte dei servizi?
Infatti quando qualcuno di noi si butta dalla finestra con il proprio familiare perché dopo aver lottato tutta la vita per non ricoverare il proprio caro in un istituto poi non ce la fa più,e si trova completamente abbandonato e senza servizi, cosa leggiamo nei giornali di questo fatto? È stato un atto d’amore…
La società si libera così la coscienza di un dramma che non è individuale, ma che riguarda tutta la comunità, le sue istituzioni, i suoi servizi cercando di giustificarlo con l’ovvietà e come se la questione riguardasse solo quella famiglia: è disabile, quindi…. poveri genitori…..
Non viene denunciata la mancanza di servizi che permettano pari opportunità a quella famiglia, né viene denunciata la discriminazione subìta quotidianamente per conquistarsi il diritto alla vita, alla cittadinanza, per noi è una battaglia dietro l’altra…
Un esempio di cui vado molto fiera è la legge 162 e i progetti del “Ritornare a casa” alla cui stesura abbiamo partecipato attivamente, che supportano le persone con disabilità e noi famiglie con sostegni domiciliari personalizzati, dandoci la possibilità di scegliere e formare il nostro operatore di gradimento e di fiducia.
E ciò contribuisce in modo significativo alla vita stessa della persona con disabilità e della sua famiglia (penso che se Chiara fosse stata istituzionalizzata forse non ci sarebbe più … chissà!) ecco perché anche oggi che Chiara ha maggiori necessità di assistenza qualificata e di cure di alta specializzazione, continuiamo a credere che possa vivere, nel rispetto della sua piena dignità umana. La nostra esperienza lampante è che il suo desiderio di vivere non dipende tanto dalla gravità delle sue enormi limitazioni funzionali e vitali, quanto piuttosto dalla ricchezza della rete di relazioni in cui è inserita e dai sostegni che riceve. Spesso ci capita di vedere medici esperti quasi stupiti che Chiara, nella sua profonda gravità, sia ancora qui con noi.
E ANCHE QUESTO MI FA RIFLETTERE PROFONDAMENTE. Ribaltando il più diffuso modo di pensare.
Sul testamento biologico: partendo dal fatto che sono e siamo contrarissimi ad ogni forma di accanimento terapeutico, vi dico come farei il testamento biologico di mia figlia. Oggi si vede il testamento biologico come uno strumento legato alla possibilità di scelta su come morire o su quali cure farsi fare o meno nel caso in cui non si possa più rappresentarsi da soli.
Questo è un aspetto, ma, il testamento biologico non è solo questo: centinaia di migliaia di persone in Italia, diverse migliaia in Sardegna non possono rappresentarsi da sole già oggi a causa della loro disabilità. Il testamento biologico serve a dichiarare, (non è una provocazione ma una realtà che rivendichiamo), come in assenza dei propri genitori o mariti o mogli o compagni ecc, chiunque abbia garantita la propria rappresentanza per poter dichiarare come la persona con gravissima disabilità intenda vivere. Ovvero senza il ricovero in istituto, sempre con servizi individuali e personalizzati, sempre con quella miglior qualità di vita possibile che si è riusciti ad ottenere e a mantenere fino a quel momento . Il testamento biologico serve anche a questo, altrimenti sarebbe discriminatorio proprio per le persone come mia figlia, che già da ora non possono rappresentarsi da sole. E se ne deve fare carico la collettività, non è una questione solo individuale.
Ma quando farlo? Io penso che, nel dubbio, fra scegliere di vivere o di morire in situazioni che possono avere contorni sfumati, non ci sia la possibilità di prendere decisioni nette e definitive che hanno la conclusione e conseguenza ineluttabile della morte, cioè il cessare del respiro, del battito cardiaco e di tutte le funzioni di un corpo, “solo” perché il cervello è danneggiato gravemente, come se il cervello perfettamente funzionante fosse il tutto, fosse l’unica e sola sede del valore della persona. Io nel dubbio, non riesco a scegliere la morte.
Non penso siano questi i parametri per misurare la dignità di una persona: mia figlia mi fa capire ogni giorno l’immenso valore della sua corporeità, con la sua pelle che sente, i suoi muscoli molti dei quali con movimenti involontari che si muovono, il suo respiro, il battito delle palpebre con il quale solo a volte riesce a comunicare, l’impercettibile movimento delle sue mani.
Credo che, ribaltando la propria mentalità, oggi la domanda da porsi sia: come ci rapportiamo noi tutti a queste vite “differenti” che non corrispondono a degli standard, ai comuni parametri? Come diamo loro diritto di cittadinanza? Come le aiutiamo a vivere? Come sosteniamo le famiglie? Che ruolo diamo loro, nella società?
Come dice Fulvio de Nigris, noi dobbiamo avere il coraggio di guardare a questi percorsi nel loro complesso (riprendendo in mano anche il testamento biologico), sapendo che non stiamo parlando solo di coma e stati vegetativi, ma delle gravi cerebrolesioni, dei cosidetti stati di minima coscienza,delle malattie genetiche e rare, di tutto il mondo della disabilità in generale. Forse parliamo di una minoranza. Una minoranza come i rom, gli extracomunitari. Non si tratta certo di una minoranza etnica, ma di minoranza etica, si. Possono essere persone nelle quali quasi non si vedono i segni del trauma o della malattia, altri sono in carrozzina, altri allettati, sbavano quando mangiano, a volte urlano, sono ripetitivi nell’esprimere concetti. Ma sono persone e soprattutto sono i nostri figli.
Se qualcuno può pensare che questa non sia vita che sia solo un vegetare, lo dica, abbia il coraggio di parlarne, non di coprire, e non solo in privato, come ci capita di sentire spesso ma pubblicamente. Qualcuno, gettando orrore nel mondo intero, già lo fa, cito solo ad esempio lo studio recente di due ricercatori italiani a firma Alberto Giubilini e Francesca Minerva, che è stato pubblicato sul Journal of Medical Ethics e che ha un titolo eloquente: Aborto post-natale: perché il neonato dovrebbe vivere? Si parla di neonati disabili, ovviamente. Sostengono che uccidere un neonato disabile «dovrebbe essere permesso in tutti i casi in cui lo è l’aborto». Le premesse sono che «1°) i feti e i neonati non hanno lo stesso status morale delle persone vere, 2°) il fatto che entrambi siano persone potenziali è moralmente irrilevante e 3°) l’adozione non è sempre nel miglior interesse delle vere persone». E si parla anche di costi sociali insostenibili, ritorniamo indietro ai tempi del progetto T4 della Germania nazista degli anni 30.
Spesso ci chiedono: Avete mai pensato che una vita vissuta nella disabilità gravissima, non fosse abbastanza dignitosa per Chiara. Che non fosse il meglio per lei?
Tante volte ci abbiamo pensato e tante volte mi sono detta: chi sono io per dire che una persona nelle condizioni di Chiara è meglio che muoia o che viva? Chi sono io, pur madre, per decidere al posto suo che è meglio che se ne vada perché soffre troppo? Mia figlia mi lancia continuamente messaggi di segno opposto: certo lei non parla e sono io che devo decodificarli.
Ricordo una notte, nel reparto di rianimazione, lei mi ha lanciato uno sguardo, è riuscita ad aprire gli occhi, a spalancarli, con una tale energia e volontà - e li ha rivolti a me - in quel momento ho sentito come se mi dicesse: mamma guarda che io sono qui e voglio rimanere qui. E tu devi lottare per me, e così abbiamo fatto.
Quello che Chiara mi insegna tutti i giorni è che se si è sostenuti sia da una rete di relazioni importanti, che da servizi sociali concreti e a misura di ciascuno, diventa, anche nella situazione più estrema, meno difficile scegliere ogni giorno di preferire la vita.

[10 giugno 2012]


Chi siamo

Argomenti

Approfondimenti